Gli
anni novanta, può apparire ormai perfino superfluo ricordare, si
caratterizzano, tra l’altro, per avere impresso una decisa accelerazione alla
riforma della Pubblica Amministrazione, la quale, anche se sino ad oggi non è
completamente realizzata, certamente è stata posta su basi normative che
lentamente ma pervicacemente stanno modificando il modo di porsi nei confronti
della collettività del pubblico dipendente.
Se si
confronta, infatti, la Pubblica Amministrazione di oggi con quella di ieri,
volta a garantire il mantenimento di un rapporto autoritario dello Stato nei
confronti del cittadino, considerato alla stregua di un suddito, non può non
osservarsi un netto cambiamento nel rapporto di relazione posto in essere nei
confronti del cittadino utente.
Basta, ad
esempio, recarsi presso qualsiasi sportello pubblico per notare un approccio
diverso, più disponibile, del dipendente pubblico; basta dare uno sguardo alle
modalità operative introdotte a seguito della quasi totale informatizzazione
della P.A.; alla velocità di risposta che ne consegue; alla semplificazione
normativa ed amministrativa realizzate; alla c.d. sburocratizzazione in atto dei
procedimenti; alle privatizzazioni, per rendersi immediatamente conto che, solo
rispetto a qualche anno fa, sono stati fatti passi da gigante verso la presa di
coscienza che amministrare la cosa pubblica significa rendere un servizio
effettivo agli amministrati.
Tale
nuovo modo di sentire e di rendere il servizio ha trovato il riferimento
normativo nell’assetto ordinamentale amministrativo con l’introduzione dei
concetti di trasparenza, di efficienza, di efficacia, di economicità e di
misurazione dei risultati nell’agire amministrativo.
Questo
processo innovativo, però, teleologicamente ispirato alla migliore resa del
servizio pubblico, sia sotto l’aspetto quantitativo che qualitativo, potrebbe
risultare insufficiente se non fosse tendenzialmente finalizzato a dare conto
dell’impiego delle risorse finanziarie pubbliche in senso più propriamente
utilitaristico per la collettività, ponendo particolare attenzione alle
notevoli dispersioni, (recte sprechi), cui da sempre è stata richiamata l’attenzione
dell’opinione pubblica, denigrando l’operato del pubblico funzionario.
Viene
maturando, pertanto, l’esigenza, in tale nuova visione del sentire collettivo,
di dover dare conto, non solo della coerenza dell’impiego delle risorse
finanziarie con gli obiettivi di politica economica perseguiti per ogni singolo
settore d’intervento, ma anche dell’utilizzo definitivo di tali risorse da
parte dei destinatari delle stesse, pubblici o privati, parametrato con canoni
non solo di stretta legalità, ma anche di efficacia, di efficienza, di
trasparenza, di economicità, oltre che di inerenza con l’obiettivo
programmato.
Apparirebbe,
infatti, incoerente, nell’attuale contesto storico, destinare risorse
pubbliche a sostegno di obiettivi programmati prescindendo poi di accertare l’effettività
di ritorno atteso per la collettività, in termini di controprestazioni di
servizi ed in termini di rapporto ragionevole con l’entità delle risorse
impiegate.
Va
maturando in definitiva, quindi, il convincimento che non basta la destinazione
effettiva delle risorse programmate
per ogni settore pubblico o d’interesse pubblico, soddisfacendo solo
formalmente l’obiettivo politicamente fissato, ma che occorra percorrere la
via del soddisfacimento sostanziale dell’interesse a tale obiettivo sotteso,
disponendo accertamenti sul modello gestionale utilizzato da chi è stato
destinatario di risorse pubbliche, anche in forma contributiva, rapportandoli a
criteri di legalità, trasparenza, efficienza, efficacia, economicità e di
inerenza, al fine di ottimizzare quantitativamente e qualitativamente l’entità
del servizio ottenuto dalla trasformazione delle risorse finanziarie pubbliche
impiegate, perseguendo così la cultura del risultato concreto degli interventi
pubblici.
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